Sono tassabili solo le somme versate a titolo di risarcimento in sostituzione di redditi, per cui non va applicata la ritenuta sugli importi pagati per indennizzare il danno all’immagine. È quanto afferma il Tribunale di Torino (giudice Ivana Peila) nella sentenza 4410 del 19 settembre.
La controversia ha visto contrapposti una compagnia di assicurazioni e un suo agente. Nel 2015 la Corte d’appello di Catania aveva riconosciuto all’agente 302mila euro come indennità per mancato gradimento della società all’ingresso di un figlio dell’agente nella propria struttura territoriale. In particolare, i giudici etnei avevano applicato una norma dell’accordo nazionale che, per i casi di rifiuto di ingresso, poneva a carico della compagnia il pagamento del 60% della media dei corrispettivi liquidati all’agente negli ultimi tre esercizi.
La società aveva però effettuato la ritenuta del 20% sulla somma versata, così l’agente aveva agito in via esecutiva per il recupero dell’importo trattenuto. La società ha allora presentato opposizione all’esecuzione, sostenendo che l’indennità in questione costituisce reddito da lavoro autonomo e dunque è soggetta a imposizione fiscale.
Nel decidere la lite, il tribunale afferma, anzitutto, che la causa non rientra nella giurisdizione delle commissioni tributarie, giacché spettano al giudice ordinario le controversie tra sostituto d’imposta e sostituito quando si discuta (come nel caso in esame) del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate direttamente dal sostituto nell’ambito di un rapporto privatistico.
Nel merito, la sentenza osserva che l’indennità di mancato gradimento costituisce una forma di risarcimento di danni. Resta quindi da stabilire se si tratti di somma diretta a compensare un mancato guadagno o a ripagare un danno all’immagine. Sul punto, il giudice ricorda che ha natura di lucro cessante solo la perdita che deriva «dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti»; appartengono, invece, «all’area del danno emergente» e non sono tassabili tutti gli altri pregiudizi, tra cui quello liquidato dalla Corte di Catania.
Infatti, la clausola contrattuale che riconosceva all’agente il diritto di far entrare il figlio nella propria agenzia non mirava a far incrementare il reddito d’impresa, ma si trattava di facoltà concessa all’agente per garantire al figlio un’attività lavorativa. La lesione di tale diritto incide quindi «sull’immagine e sulla professionalità dell’agenzia», dal momento che il rifiuto di subentro «viene percepita dalla clientela come un’incapacità» dell’agente di formare il figlio all’esercizio della sua stessa attività.