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Posto cancellato, è lecito licenziare non demansionare

Pubblicato il 16 aprile 2019 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

La soppressione della posizione lavorativa può giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma non il totale svuotamento di mansioni. Lo ha deciso la Cassazione con l’ordinanza 10023/2019 .

Nel caso di specie, il tribunale di Roma e la Corte d’appello hanno rigettato la difese della società secondo cui, a seguito della soppressione della posizione lavorativa originariamente espletata dal dipendente, il rapporto di lavoro era proseguito, seppur in totale assenza di mansioni, al mero fine di cercare una soluzione che potesse preservarne l’occupazione e, dunque, nell’esclusivo interesse del dipendente.

Il tribunale ha conseguentemente accertato il demansionamento subito dal lavoratore, condannando l’azienda al risarcimento del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, derivato dalla totale privazioni delle mansioni concretizzatasi «dal luglio 2005 sino alla data del licenziamento».

Con un unico motivo di ricorso, la società ha impugnato la sentenza della Corte d’appello per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2103 del codice civile (nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal Dlgs 81/2015 - ma anche nella versione attuale l’inattività totale sarebbe vietata).

In partico€lare il datore di lavoro ha ribadito l’assenza di illiceità del demansionamento resosi temporaneamente necessario al mero fine ricercare una soluzione alternativa al licenziamento, essendosi concretizzato in un trattamento di miglior favore per il dipendente.

La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha rilevato che la condotta accertata non potesse essere legittimamente adottata, violando i diritti oggetto di tutela costituzionale. I?giudici hanno altresì precisato che la disciplina delle mansioni all’epoca vigente avrebbe tuttalpiù consentito, con il necessario consenso del lavoratore e al fine di preservare l’occupazione, l’attribuzione di mansioni inferiori ma non il mantenimento di un rapporto totalmente svuotato di contenuto professionale.

Nella scala progressiva di diritti inscindibilmente collegati tra loro, tra i quali il diritto al lavoro, alla conservazione dello stesso, all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa e alla professionalità, dall’ordinanza 10023/2019 emerge in modo chiaro e netto come l’effettiva prestazione rappresenti il punto nevralgico dei diritti inerenti alla persona del lavoratore, non mitigabile neppure quando l’alternativa è costituita dal licenziamento del dipendente.

Se da un lato il percorso argomentativo seguito dalla Corte rappresenta la sintesi di principi consolidati nel nostro ordinamento - ovverosia la tutela non solo del diritto del lavoratore alla retribuzione ma altresì la tutela della professionalità e personalità morale del dipendente – dall’altro non può non rilevarsi come nella fattispecie vi siano peculiarità che avrebbero potuto attenuare e bilanciare gli interessi in gioco. A ciò va aggiunto che, per costante giurisprudenza, il danno non può considerarsi come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo di demansionamento, essendo necessaria l’effettiva prova del danno subito, in quanto, come precisato dalle sezioni unite (sentenza 6572/2006), «può infatti accadere che l’inadempimento datoriale resti privo di effetti, non provochi conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore».

Ebbene, nonostante tale aspetto non abbia formato oggetto di censura avanti la Suprema corte, risulta difficile ravvisare nel caso specifico il danno – soprattutto e quantomeno nella sua “veste” patrimoniale – effettivamente subito dal dipendente.

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