In occasione della conversione in legge del decreto agosto è stato soppresso il comma 4 dell’articolo 14, che consentiva al datore di lavoro, a prescindere dalle dimensioni occupazionali, di revocare in ogni tempo i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati nel 2020, a condizione che l’imprenditore facesse contestualmente richiesta del trattamento di integrazione salariale con causale “emergenza Covid-19”, a partire dalla data di efficacia del recesso in favore del dipendente.
Tale disposizione ricalcava quella dell’articolo 46, comma 1-bis, del Dl cura Italia introdotta dal decreto rilancio, seppur con una fondamentale differenza: mentre la prima si riferiva ai soli licenziamenti intervenuti «nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020» (con un limitato effetto retroattivo), la seconda (articolo 14, comma 4) aveva a oggetto tutti i licenziamenti avvenuti «nell’anno 2020».
L’estensione dell’ambito di applicazione della norma trasformava la speciale disciplina della revoca dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ai tempi del Covid da strumento contingente per porre rimedio a licenziamenti frettolosamente intimati nel momento iniziale dell’emergenza, e in assenza di alternative normative e/o di ammortizzatori sociali con portata “universale”, a misura strutturale finalizzata al mantenimento dell’occupazione.
Tuttavia, il fatto che, così facendo, tale particolare disciplina fosse applicabile anche ai licenziamenti comminati prima della dichiarazione di emergenza (31 gennaio 2020) rappresentava un aspetto non certo esente da critiche.
Senza contare che, l’introduzione dell’articolo 14, comma 4, aveva destato tra gli interpreti ulteriori perplessità: innanzitutto, la norma era stata severamente criticata poiché le agevolazioni offerte al datore di lavoro per indurlo alla revoca del licenziamento erano ritenute troppo vantaggiose (nessun onere o sanzione a suo carico, possibilità di revoca anche in corso di causa).Inoltre, era stato osservato che la disposizione, per come redatta, poteva indurre l’imprenditore ad assumere comportamenti “opportunistici” attenuando, da un lato, il rischio del licenziamento e, dall’altro, consentendo condotte in frode alla legge o forme di abuso del potere di revoca. Ma ciò che davvero non convinceva era la scarsa probabilità di utilizzo pratico: la revoca del recesso rappresenta, per qualsiasi datore di lavoro, un evento eccezionale e, per certi aspetti, persino contrario agli interessi aziendali. Si pensi, ad esempio, a un’impresa sotto i 15 dipendenti: la sanzione tipica per un licenziamento illegittimo, perché sprovvisto di motivo oggettivo, va da 2,5 a 6 mensilità, un deterrente poco persuasivo ai fini di un ripensamento.
L’abrogazione del comma 4 ripristina la disciplina ordinaria della revoca del licenziamento introdotta dalla legge Fornero, che la assoggetta a un «termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo» (articolo 18, comma 10, dello statuto dei lavoratori).